Il Signore Dio disse alla donna: Che hai fatto? Rispose la donna: il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato
Genesi 3,13
Né l’uomo né la donna si prende la responsabilità delle proprie azioni. Questo è chiaro e viene ribadito ogni volta che, nei più diversi contesti, si parla di questo brano. Ciò però non basta per capire fino in fondo questo brano, che di storico non ha nulla, ma che contiene invece delle costanti universali, archetipiche che sono in grado di riproporre il brano in tutta la sua attualità.
Per comprendere in profondità questo versetto occorre tener ben presente il dialogo intercorso tra la donna e il serpente nei primi sette versetti del capitolo.
La voce subdola del serpente si insinua nelle pieghe dei ragionamenti fatti dalla donna. Infatti, il serpente non è responsabile dell’immagine che la donna si era fatta di Dio e che emergeva dalle sue parole. Dio non aveva affatto detto di non toccare l’albero della conoscenza del bene e del male, ma semplicemente di non mangiarne i frutti (cfr. Gen 2,17).
La donna, perciò, ha potenziato il divieto, trasformando Dio in un essere dispotico che comanda cose assurde. Quale male può arrecare, infatti, il semplice “toccare” un albero? Perché, però, la donna aveva trasformato il comando dato da Dio?
Quale forza ha potuto trasformare l’immagine di un Dio che si prende cura dell’uomo, mettendolo in guardia da ciò che potrebbe nuocere alla sua natura, in un essere dispotico che emana ordini insensati e comunque da osservare? L’angoscia quando essa cova sotto le ceneri di una vita triste, grigia e priva di slanci.
Una vita fatta di regole (incomprensibili) da osservare, dove la realtà (anche quella di Dio e soprattutto la nostra) viene sostituita dalla sua ansiosa rappresentazione. Il serpente e ciò che esso rappresenta nulla avrebbe potuto contro una persona libera, fiduciosa nella bontà della propria natura e nell’infinità bontà ed amore di Dio.
Perciò, è stata proprio tutta colpa del serpente? Oppure la donna ha avuto le proprie responsabilità? Ammetterle, però, significa riconoscere il proprio fallimento; significa togliersi la maschera del moralismo e del legalismo per rivelare pienamente chi veramente si è.
Molto più semplice dare la colpa al diavolo che ci ha ‘spinti a cadere’, a cedere, a commettere questo o quell’errore. Ma il ‘diavolo’ non esiste, almeno così come noi ce lo immaginiamo.
Ciò che veramente esiste è l’abisso oscuro dell’angoscia, dell’ansia estrema e perniciosa, sede di mostri raccapriccianti sempre pronti a trasformare la realtà, a dividerci da essa per rinchiuderci in un mondo sinistro, fatto di paure e paranoie.
Nessuno può veramente ingannarci, sviarci da una vita piena di fiducia nel fondamento della nostra essenza, piena di fede in Dio che protegge e sostiene, ama e cura e che MAI corrisponde alle immagini draconiane e moralistiche che la Chiesa ha offerto di lui per secoli e che finalmente, pian piano, stanno svanendo.
Certamente, il serpente è il responsabile primo di ciò che è accaduto, ma fintanto che con umiltà non chiniamo la testa per vedere cosa ci abita dentro, il rimbalzo ansioso della colpa non terminerà mai. Prima o poi bisogna farlo!