Diversi sono i modi in cui è stata compresa la vita di Gesù di Nazareth. Per alcuni, fu un profeta che predicava il regno di Dio, per altri un rivoluzionario militante contro il potere di Roma, e per altri ancora fu uno di quei filosofi che predicavano un stile di vita distaccato dai piaceri del mondo, mentre c’è chi sostiene fosse un contadino della Galilea o un ebreo del tutto marginale.
Tutte queste immagini di Cristo, legittime e giustificabili, derivano dall’interpretazione dei dati biografici che è possibile ricavare dai Vangeli e che appartengono al Gesù storico, vissuto tra il 6 a.C. e il 30 d.C.
Un concetto di storia troppo ristretto
Il problema di queste importantissime ricerche è la limitatezza del concetto di storia che le caratterizza. Per essere elevato al rango di “fatto storico” un episodio narrato nei Vangeli deve essere attentamente vagliato mediante i sofisticati strumenti della storiografia.
Da una rigorosa analisi storiografica, è persino emerso che una ristrettissima percentuale delle parole che Gesù pronunciò e delle cose che fece risalgono effettivamente a lui, mentre ciò che resta dei Vangeli è la riflessione dei primi cristiani.
Ma anche gli ebrei e i cristiani che scrissero la Bibbia condividevano questa concezione della storia? Per loro era reale solo ciò che potevano verificare in modo o in un altro? Oppure la realtà era un insieme assai più vasto che comprendeva anche ciò che era percepito non con i sensi del corpo, ma con quelli dell’anima?
Leggere la storia coi sensi dell’anima
Se ci poniamo in tale prospettiva, la vita di Gesù fu l’insieme di tutto ciò che i primi cristiani ritenevano reale e che per noi più non lo è.
I Vangeli, però, non terminano con la sua morte. Proseguono con i racconti della resurrezione delle apparizioni e terminano con uno dei fenomeni che più di ogni altro si sottrae a ogni tentativo di verifica storiografica: l’ascensione di Gesù.
Nel Nuovo Testamento questo fenomeno viene descritto in tanti modi: «si separò da loro (ossia dagli apostoli) e fu portato nel cielo» (Luca 24,51); «passare da questo mondo al Padre (ossia all’altro mondo)» (Giovanni, 13,1; cfr. anche 16,27-28); «preso da voi (e portato) in cielo» (Atti degli Apostoli, 1,11).
Le apparizioni e l’ascensione di Gesù seguono l’evento della trasformazione del suo corpo e del suo passaggio da questo mondo all’altro. Secondo me, l’ascensione non sarebbe altro che la sua ultima apparizione. Non si tratterebbe, quindi, dell’ascesa verticale al cielo, ma della sparizione definitiva di Gesù, che da quel momento non fu più visibile agli occhi (nudi) degli apostoli, né di alcun altro personaggio del Nuovo Testamento.
La prospettiva di Gesù
In questa prospettiva, la sua biografia tornerebbe a essere inquadrata nel contesto che più le è proprio e che renderebbe ragione di tanti misteriosi episodi della sua vita. Gesù di Nazareth proveniva da un mondo diverso dal nostro, parlava e agiva a partire da esso. E alla fine vi avrebbe fatto seplicemente ritorno, non prima però di morire come qualsiasi altro uomo.
Del resto, il brano dell’annuncio dell’angelo a Maria (cfr. Luca 1, 35) documenterebbe che Cristo nacque in un modo quanto meno misterioso e comunque fuori dal comune. Più che di una nascita, potrebbe trattarsi di una «venuta nel mondo» (cfr. Giovanni 1,9), ossia di un ingresso a cui seguì un’uscita, rappresentata dall’ascensione per l’appunto.
Perciò, la prospettiva a partire dalla quale Gesù parlava e agiva era forse non solo terrestre, ma anche celeste. Lo spazio terrestre nel quale è presente questa prospettiva, viene chiamato in due modi dagli evangelisti: «Regno di Dio» o «Regno dei cieli» (cfr. per es. Matteo 12,28 e 5,3).
Si tratta, in realtà, di due sinonimi. Infatti, gli ebrei non potevano pronunciare il nome di Dio e, al suo posto, usavano dei sinonimi tra cui anche la parola “cielo” o “cieli”. I Vangeli presentano il Regno dei cieli come un spazio in cui è misteriosamente presente una realtà che non si vede con gli occhi del corpo, una sorta di “linea di confine” tra la il mondo mondano e quello divino.
Lo spazio di “confine”
Questo spazio, sempre secondo i Vangeli, è occupato dall’istituzione fondata dallo stesso Gesù di Nazareth: la Chiesa. Secondo Paolo di Tarso, la Chiesa è però paragonabile a un corpo (cfr. per es. Romani 12,4-5) composto da tante membra quanti sono i suoi componenti, ossia gli uomini e le donne vissute dopo la morte e resurrezione di Cristo. Perciò la Chiesa è una realtà essenzialmente antropologica, costituita cioè principalmente non da cose o strutture, ma da persone (cfr. anche Prima lettera di Pietro 2,4-5).
La Chiesa, sarebbe, così una sorta di spazio cosmico in cui il mondo di Dio comunicherebbe col nostro. Se è essenzialmente costituita da uomini e donne, più che da strutture e sovrastrutture, viene da chiedersi se anche essi siano territori di confine. In tal senso, il mistero della vita di Gesù potrebbe essere la chiave per comprendere anche il percorso esistenziale umano.
La Chiesa, così, è uno spazio di confine tra due mondi, anzitutto perché lo sono le persone che la costituiscono. Inoltre la libertà delle persone che la compongono è posta davanti a due progetti, quello del cosmo e quello del caos. È proprio questa tensione dell’uomo tra la luce e le tenebre che può determinare in un modo o in un altro il futuro della Chiesa e della società occidentale in cui è inserita. A questo particolare aspetto è dedicata l’ultima parte dell’indagine.
(Dal mio libro: I grandi misteri irrisolti della Chiesa, Newton Compton 2012)