Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto
Genesi 3,23
Questo versetto svolge due funzioni. Chiude il capitolo 3 ed insieme la prima parte della Genesi, ossia la creazione e il racconto della caduta (Genesi 1-3).
Il paradiso perduto
D’altra parte però c’è anche un’altra e meno evidente funzione, legata alla realtà della vita quotidiana. Il racconto dell’Eden è la storia del cosiddetto paradiso perduto. Ossia di una condizione felice dell’umanità, quando essa era in piena comunione con Dio e con il creato.
L’autore di Genesi 3 probabilmente si chiedeva: perché si è condannati a coltivare un suolo che dà solo spine e cardi? Forse ciò dipende da una ‘colpa‘ originale? Forse l’uomo, all’inizio, si trovava in un luogo di delizie, ossia l’Eden, il paradiso terrestre?
Dovevano essere non troppo dissimili da queste le domande che l’anonimo autore di questo capitoli si faceva ogni giorno, alle prese con la dura vita nella Giudea che era stata devastata dai Babilonesi cinquant’anni prima.
Domande antiche e sempre nuove
Perciò le due parti del versetto dovrebbero idealmente essere rovesciate: l’uomo lavorava il suolo da cui era stato tratto perché era stato scacciato dal Signore dall’Eden. In tal modo, il versetto rappresenta la risposta che l’antico scrittore si era data. Alla fine del brano, troviamo così quasi il titolo – a mo’ di risposta – della storia narrata al capitolo 3.
Se dall’Eden al suolo dove attualmente l’uomo lavora il percorso è certo, perché è praticamente la storia di ciascuno di noi alle prese con le difficoltà del lavoro e della vita, che dire del percorso dalla condizione attuale dell’uomo all’Eden? E’ possibile tornare al paradiso terrestre?
È possibile, cioè, tornare ad una vita in sintonia con se stessi, con Dio e con il creato? Ciò non significa abbandonare il lavoro per inseguire luoghi e stili di vita veramente utopici, ma nel capire che ogni trasgressione ha limiti insuperabili. Che nessuno può pensare di essere Icaro senza che le sue ali posticce un giorno si sciolgano.
In fondo, accettare se stessi e i propri limiti, significa dare a Dio la possibilità di amarci come lui vuole e di trasformare – lentamente – i nostri giorni in un luogo più felice ed abitabile.